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Issue n. 9 | Daniel Baumann intervistato da Antonia Alampi

21 Settembre 2018 Artissima Stories

Antonia Alampi: Tu una volta hai definito il museo una sorta di parco giochi – o hai usato questa definizione come metafora per descrivere com’è lavorarci. La Kunsthalle che dirigi a Zurigo, oltre ad un parco giochi, è anche temporaneamente diventata una chiesa, un teatro e ora un’università, grazie alla mostra che ha appena aperto in collaborazione con l’Università di Zurigo.

Daniel Baumann: Ho iniziato la serie “Kunsthalle come qualcos’altro” per mettere in discussione questa specifica istituzione e per giocare con la sua identità. Una Kunsthalle è una nella pletora di piattaforme: nel complesso ci sono migliaia di biennali, fiere, gallerie, musei, siti internet etc. che organizzano migliaia di mostre d’arte contemporanea. Ho appena letto che solo in Cina ci sono circa 4000 mostre ogni anno. Non solo, tutti stanno facendo tutto: galleristi che si trasformano in direttori di museo, critici d’arte che lavorano come galleristi, direttori di museo che entrano a fare parte di case d’asta, art consultant che gestiscono spazi espositivi, biennali che vendono arte e fiere che sembrano biennali. Quindi c’è un’enorme fluidità e io mi chiedo se questa sia la nuova normalità o un momento di transizione. In modo un po’ sorprendente questa moltiplicazione ci ha portato più uniformità, non diversità: ogni cosa è formattata per rientrare nel gusto e nella conoscenza di un pubblico e un mercato internazionali. Lo stesso vale per le fiere.

Negli ultimi anni ho cominciato a visitare fiere locali dove ho scoperto arte di cui non ero a conoscenza. Penso sia stato il mix di “internazionale” e “locale” che ha reso Artissima attraente per me. Anche attraverso sezioni come Present Future e Back to the Future, che riescono a mescolare mondi diversi e a farlo in modo intrigante. È anche intima: hai tempo di passeggiare, di sederti, parlare e fare conoscenza. Inoltre il modo in cui Sarah Cosulich ha accolto e coinvolto curatori, e come ha introdotto nuovi format come questi vivaci tour per un pubblico generico condotti da critici e curatori. E poi c’è la città di Torino, i suoi musei, e i meravigliosi ristoranti. Artissima, consciamente o meno, ha giocato con eleganza e intelligenza la carta delle esperienze variegate sebbene specifiche. L’economia dell’esperienza è importante per le vendite ora, quindi si potrebbe definire una fiera un mercatino delle pulci di lusso o un centro commerciale per amanti dell’arte. In Asia molti centri commerciali includono musei, e perché no? Quindi credo che le fiere dovrebbero abbracciare il loro destino a cuore aperto perché presto le mega gallerie si diventeranno esse stesse delle fiere.

AA: Concordo pienamente con te. E si, credo ancora che ci siano vari mondi dell’arte che coesistono negli stessi posti ma non necessariamente si incontrano, hanno un pubblico completamente diverso, diversi mercati (o nessun mercato) nonostante la schiacciante omogeneità portata dal mercato globale etc. Quindi se una fiera riesce ad ottenere tutto questo, è certamente un ottimo risultato. Tu sei stato coinvolto nella giuria del Premio Present Future nel 2016, una sezione che incoraggia e supporta il lavoro della più giovane generazione di artisti invitando al contempo curatori da diverse parti del mondo a selezionare gallerie che potrebbero essere meno conosciute in Italia e in generale nel contesto europeo occidentale. Puoi parlarmi della tua esperienza in fiera come membro della giuria? Era la tua prima volta ad Artissima? Sei un visitatore regolare? Quali artisti puoi dire di aver veramente scoperto in fiera, se ce ne sono? Visitare fiere è parte integrante della tua ricerca curatoriale? Se si, quali sono per te le fiere imperdibili?

DB: La cosa migliore dell’essere parte di una giuria è che devi essere in grado di guardare più da vicino per poterne influenzare una decisione. Impari dai tuoi colleghi e da come argomentano o dicono cose con cui non concordi, così conosci persone interessanti, simpatiche e a volte fastidiose. Da quanto mi ricordo andai a Torino nel 2015 per la prima volta, poi di nuovo nel 2016 e 2017, e ho solo bei ricordi. Mi piaceva particolarmente la sezione Back to the Future, dove ho scoperto il lavoro, tra gli altri, di Jef Geys, Lars Fredrikson, Imre Bak, Paulo Bruscky e Chu Enoki. Quindi si, vado alle fiere, da Art Basel a Frieze, Fiac, Nada, Art Cologne, Miart a Milano, Artissima, Paris Internationale e Liste a Basilea. Dal momento che non sono un collezionista ne mi interessa particolarmente sapere chi sarà la prossima star, a volte mi sento fuori tempo, ma anche questo ha degli aspetti positivi. Quello che apprezzo particolarmente sono le presentazioni di un solo artista, attraverso cui posso conoscerne il lavoro. L’altra cosa che amo è vedere un’opera di alta o oscura qualità, che sfidi lo spettatore. La prima volta che andai ad Art Basel negli anni ’80 rimasi sorpreso dal fatto che una persona potesse comprare un Picasso o un Kirchner. Io pensavo che queste cose potessero stare solo nei musei. Questo ha avuto un effetto normalizzante e, allo stesso tempo, mi ha fatto percepire l’arte come qualcosa di ancor più esclusivo.

AA: Giusto. In un certo senso ci ricorda che l’arte è un bene di consumo, ma anche che, in fin dei conti, si estende in un mondo che esiste al di là del regno delle istituzioni, anche in spazi intimi. Ultima breve domanda: se ti chiedessero di curare una sezione di una fiera, come sarebbe?

DB: Sarebbe la sezione dei libri d’artista, che Artissima tra l’altro ha. Dovrebbe includere Printed Matter, Daniel Buchholz, Christoph Schifferli di Archiv a Zurigo, Brendan Dugan di Karma a New York, amici che collezionano libri, designer grafici, e molto altro, tra cui giovani iniziative editoriali. Passerei la mia giornata seduto a parlare con loro, lamentandomi dei prezzi, del tempo e delle fiere, celebrando le nuove scoperte e fumando qualche occasionale sigaretta.

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