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Issue n. 13 | Florence Bonnefous intervistata da Francesco Stocchi

1 Ottobre 2018 Artissima Stories

Francesco Stocchi: Quest’estate la galleria ha presentato la mostra 1998. Avete tirato fuori dal vostro magazzino opere del 1998 realizzate da tredici artisti, alcuni molto vicini a voi con i quali avete collaborato e continuate a farlo dopo oltre vent’anni, altri invece prossimi in termini di affinità elettive. Potresti parlarci della percezione che avevate nel 1998 dello stato del sistema dell’arte? Era un periodo in cui si sono iniziati a vedere cambiamenti radicali nel fare e nell’intendere l’arte. Ma qual era al tempo la vostra percezione evolutiva? Si può ora parlare di un futuro che non c’è stato?

Florence Bonnefous: Si, abbiamo presentato 1998, trent’anni dopo il 1968, vent’anni fa. Una forma di omaggio a un evento del passato, e un modo – un po’ scherzoso, un po’ opportunistico – di tuffarsi nella nostra storia. Per molto tempo abbiamo fatto mostre che includessero delle regole del gioco, come delle cacce al tesoro. In Domino (2006) per esempio ogni artista ne invitava un altro e la mostra si trasformava da un display molto scarno ad uno molto pieno. Per quest’ultima la linea guida è stata mostrare solo opere che fossero nel nostro deposito dal 1998, per testare in qualche modo il loro valore e la loro vitalità, ma anche la loro capacità di coesistere all’aria aperta. Inoltre, il fatto che questi lavori non siano stati venduti all’epoca non significa che non siano belli, quindi la domanda è: forse erano avanti rispetto al loro tempo? Solo un’eccezione alla regola: il facsimile del Cookbook di Dorothy Iannone: anche se l’opera è del 1998 noi l’abbiamo ricevuta dopo. Tuttavia, per evidenziare questo piccolo imbroglio, per fortuna avevamo un disegno di Lily van der Stokker che dice “Maybe I made a mistake!”.

Il primo lavoro in mostra in realtà è installato sulla facciata della galleria fin dalla mostra di Liam Gillick Big Conference Centre (1998). Nella prima sala gli elementi della mostra di Sturtevant, ça va aller (1998), si trovano quasi esattamente nella stessa posizione della loro installazione originale. Era la nostra prima mostra con Sturtevant, un progetto incredibile che ha definito gli inizi del suo lavoro con le immagini dei media, e che ha visto la nascita del quasi-logo ça va aller productions. La mostra faceva affidamento sul mondo del calcio come esempio rappresentativo dei tempi. La Francia ha vinto i mondiali nel 1998 e di nuovo nel 2018. Ma noi non siamo particolarmente patiti di calcio, e ancora meno di falsi ritrovi. Quando ci guardiamo allo specchio ogni giorno non ci vediamo invecchiare. Questo forse ci aiuta a mantenere una certa illusione di gioventù, ma è anche pericoloso perché la routine se ne approfitta per prendere piede. Per rispondere alla tua domanda, nel 1998 il mercato dell’arte era ancora in costruzione, lo sviluppo delle gallerie come business era un obiettivo felice e lodevole. Oggi la posta si è alzata; il mercato dell’arte è cresciuto in modo autoritario e si nutre di stereotipi. Mantenere quella che chiamano una galleria “sostenibile” (nel senso di un commercio etico) è una sfida difficile. Eppure il lavoro degli artisti porta sempre con sé la spinta al cambiamento, consciamente o meno. In Francia e nella cultura Anglosassone tuttavia l’arte è percepita come un evento culturale supervisionato da manager, e deve portare un guadagno veloce. Per questo mostrare opere che hanno vent’anni – troppo recenti per aver acquisito la patina del tempo – ma che non sono state validate da un atto di vendita, è anche un modo di parlare di un possibile futuro.

FS: Assolutamente. La storia di Air de Paris mostra come diversi modelli di galleria siano possibili e il vostro rappresenti forse qualcosa di unico, utile come monito, soprattutto in un periodo in cui si parla della necessità di adottare formule omologanti per non soccombere alle prepotenze di un sistema poco sostenibile per i più. Come risultato ci troviamo in un paradosso dove la forte crescita di un mercato globale coincide con il crollo delle nuove gallerie (50 nuove gallerie hanno aperto nel 2017, rispetto a 275 dieci anni prima)! Data la vostra (tua e di Edouard Merino) formazione a Grenoble, presso la prima scuola curatoriale europea, cosa vi ha portato ad aprire la galleria a Nizza nel 1989? È stato il desiderio di confrontarsi con uno spazio fisso, quindi un luogo di destinazione dove poter raccontare in maniera sequenziale capitoli di una storia, la mancanza di struttura intorno alla figura del curatore, vanità, il senso di costruire una squadra? Qual è un errore che non rifareste?

FB: Ci siamo incontrati e volevamo fare qualcosa insieme nel mondo dell’arte, e il modello più semplice sembrava essere quello della galleria. Questo probabilmente è stato il nostro primo errore, aprire la galleria. Il secondo è forse che la galleria ha finito per essere piuttosto bianca! Due errori che abbiamo ancora il tempo di correggere, prima di tutto facendo mostre più miste e poi, un giorno, chiudendo! Abbiamo aperto a Nizza per seguire un’intuizione: fare un passo indietro, allontanarsi dal centro e alla fine della periferia trovare la riva del mare. Se tutto va bene torneremo là, perché abbiamo un progetto nello spazio de La Cédille a Villefranche sur Mer, vuoto da quando se ne sono andati Georges Brecht e Robert Filliou nel 1969. È uno spazio molto piccolo (25 metri quadri) che sarà attivo per lo più durante l’inverno, al di fuori della stagione turistica. Forse riusciremo a fare qualcosa di nuovo con il vecchio.

FS: Apriste la galleria a Nizza a seguito di un’intuizione, come mi dici, ma magari anche scevri di una certa consapevolezza che pare invece essere oggi la pietra di Sisifo, quando sembra difficile lanciarsi senza troppe strategie da dover considerare. Poi vi siete trasferiti a Parigi e ora mi parli dell’idea di tornare nel Sud della Francia. Vorrei il tuo parere rispetto al cambiamento di percezione tra centralità e periferia nell’offerta economico-culturale. Trovi che oggi sia strategicamente possibile aprire una galleria nella periferia dei grandi centri del mercato dell’arte – sopperendo le distanze con la tecnologia e con la proliferazione delle fiere – e offrire ai clienti quel gusto esotico dell’outsider posizionandosi in un luogo fuori dai soliti circuiti geografici? Oppure le logiche che centralizzano l’offerta, la pressione economica del modello di galleria e le nuove figure di collezionisti portano a concentrare nei grandi centri l’offerta culturale?

FB: Certamente le distanze si sono accorciate e le fiere sono diventate i mega centri che conosciamo, nel bene e nel male. Il sistema dell’arte viaggia virtualmente senza sforzi, anche se oggi l’accesso al digitale probabilmente rinnova le disuguaglianze tra Nord e Sud. Quando aprimmo a Nizza ci dicemmo che la tecnologia ci avrebbe permesso di lavorare in remoto – allora si trattava del fax. Al giorno d’oggi lo sforzo maggiore è andare a vedere le cose dal vivo, senza una guida turistica, senza un alibi culturale, fuori da una Biennale. Vorrei davvero andare al Pireo, dove Rodeo ha appena inaugurato una seconda sede. Il centro e la periferia sono concetti mutevoli, frattali. A giugno 2019 trasferiremo Air da Parigi a Romainville, insieme ad altre gallerie, un’istituzione e una fondazione che offrirà residenze per artisti (*). È un sobborgo vicino a Parigi, un’area industriale in riconversione, e vedremo se questa periferia potrà diventare un nuovo centro. Poi ci sarà la questione della gentrificazione. Ma è nel mare che i pesci nuotano, fino a che la pesca intensiva e l’inquinamento lo permettono!

FS: Siamo giunti alla venticinquesima edizione di Artissima. Da quanti anni Air de Paris espone in fiera?

FB: È da così tanto tempo che non mi ricordo più, adoriamo questa fiera!

FS: Quest’anno parteciperete a Back to the Future che, in occasione dell’importante anniversario della fiera, sarà focalizzato sugli anni dal 1980 al 1994. Come dicevamo, i primi anni ’90 hanno visto nascere la galleria. Cosa porterete a Torino?

FB: Per Back to the Future abbiamo concepito una presentazione monografica di Allen Ruppersberg. Uno stand austero ed elegiaco, che evoca la perdita e la memoria delle persone amate, di chi ha combattuto, fossero essi soldati nella Prima Guerra Mondiale o attivisti nella lotta contro l’AIDS. (*) In Situ Fabienne Leclerc, Galerie Imane Farès, Galerie Vincent Sator, Galerie Jocelyn Wolff, Frac Île de France, Fondation Fiminco.

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